Raccontaci chi sei e cosa fai nella vita:
Mi chiamo Nadia Coletta, ho 27 anni e sono un’infermiera. Mi sono laureata a 23 anni e dieci giorni dopo la discussione della tesi ho iniziato a lavorare in una clinica privata. Turni massacranti, demansionamento e stipendio da fame mi hanno dato la spinta di aspirare ad altro, quindi non mi sono fermata, non mi sono accontentata ed ho continuato a studiare. Ho conseguito un master sulla gestione delle lesioni da pressione ed ho partecipato a molti concorsi pubblici in tutta Italia. Successivamente mi sono licenziata da quella clinica per inseguire nuove esperienze professionali, che mi hanno formata sotto tutti i punti di vista.
La vittoria più grande però l’ho raggiunta lo scorso anno vincendo il concorso della Regione Lazio, che in meno di 8 mesi mi ha portato alla firma di un contratto a tempo indeterminato nella ASL di Viterbo, mia città natale. Da marzo 2020 mi trovo in prima linea sul fronte dell’emergenza sanitaria che ha travolto il mondo, presto servizio nell’unità operativa sub-intensiva COVID.
Quando hai capito che questa era la tua strada?
E’ stato sempre il sogno di una vita indossare quella divisa. Non c’è stato un episodio preciso che mi abbia portato su questa strada, forse ero predestinata ad intraprendere questa professione.
Come stai vivendo questo periodo e quali sono le tue paure?
Sicuramente è stato, e continua ad essere un periodo difficile per tutti, ma per noi sanitari lo è stato ancora di più. Infatti penso che personalmente questo periodo mi abbia segnato molto, sia dal punto di vista professionale che umano.
Non dimenticherò mai la fame e la sete che ho sofferto durante i turni di lavoro, i perenni mal di testa causati dalla visiera, i segni indelebili sul mio volto causati dal filtrante facciale, l’odore nauseante dell’amuchina, il sudore dopo ore ed ore dentro quella tuta, non è stato per niente facile lavorare con tutte quelle protezioni! Eppure in quei momenti non avevo il tempo di pensare alle mie condizioni lavorative, passava tutto in secondo piano, la priorità era solo prendermi cura di chi aveva bisogno di me. Il pensiero andava sempre ai pazienti, alla loro “fame d’aria”, alla
solitudine e alla sofferenza che ho letto nei loro volti, ai loro addii, alle loro preoccupazioni, alle videochiamate che ho assistito tra il malato e i suoi affetti più cari, alle loro lacrime di gioia all’uscita della terapia intensiva. Non dimenticherò i tanti sorrisi dei pazienti che pronti ad andare a casa mostravano tutta la loro gratitudine per quello che avevamo fatto per loro, i ringraziamenti dei parenti arrivati tramite lettere e messaggi anche quando non tutto andava come ci aspettavamo.
La pandemia ha messo a dura prova tutto il personale sanitario, ci siamo ritrovati a combattere contro un nemico invisibile, crudele ed imprevedibile che ci ha stravolto le vite. Abbiamo dovuto fronteggiare un qualcosa per cui non eravamo preparati e su cui non sapevamo agire.
Le preoccupazioni e le paure sono state tante. E’ vero che il nuovo, l’incerto a volte può spaventare, ma a me no. A me non ha spaventato il Covid, ma l’ignoranza e il menefreghismo della gente si!
Purtroppo le persone si sono dimenticate di noi, dei nostri sacrifici, siamo stati considerati eroi per qualche mese per poi passare a complici di una pandemia, a detta di qualcuno mai esistita. Continuo ad avere paura dell’incapacità della gente di comprendere la sofferenza dei suoi simili, ho paura della mancanza di rispetto per chi cerca di impiegare tutte le proprie forze per svolgere al meglio il proprio lavoro, ho paura perché ogni volta che qualcuno non indossa la mascherina o fa assembramenti noi siamo lì ad occupare un altro posto letto vanificando i nostri sforzi e sofferenze.
Non ho mai avuto paura di contrarre il virus, ma di essere la fonte di contagio per i miei cari si. Mi resterà quella voglia non ancora soddisfatta di abbracciare le persone a me care, di potermi avvicinare a loro senza indossare una mascherina e di poter mangiare al loro tavolo senza la paura di contagiarli.
Ora mi trovo in isolamento con positività al Covid 19, ma sono fiera di tutti i miei sacrifici, infatti la gioia più grande è di non aver contagiato nessuno dei miei cari, d’altronde credo che amare a volte significhi rinunciare: ecco questo è uno degli insegnamenti che ho ricevuto da questo periodo difficile ed è per questo che amo il mio lavoro perché ogni giorno, in ogni storia, in ogni situazione si può imparare qualcosa, sia dal punto di vista professionale che umano.
Cosa ti spinge ad andare avanti?
L’amore per la mia nobile professione, prima di tutto e nonostante tutto e la voglia di difenderla e valorizzarla.
Cosa diresti ad un giovane che vuole intraprendere il tuo stesso percorso?
Ad un giovane che vuole intraprendere questa professione gli direi di pensarci bene, perché questo lavoro non è per tutti. Ci vuole tanta passione e tanto coraggio. Ebbene si ci vuole tanto coraggio a restare lì a guardare in faccia il dolore e la sofferenza sul volto e nel corpo di chi sta male, ci vuole coraggio a mettersi una vita tra le mani, prendersene cura, fare tutto nella maniera più giusta per far si che duri più a lungo possibile. Ad un aspirante infermiere gli direi che sta per intraprendere il lavoro più bello del mondo che ti da stimoli ed emozioni nuove ad ogni nuovo turno
lavorativo e che tutto ciò che ho appena descritto viene poi compensato dalla guarigione, da quel sorriso che finalmente appare su quel volto che neanche ricordava più come si facesse. Io lo sceglierei ogni giorno questo lavoro perchè insegna ad apprezzare la vita sotto ogni sua minima sfaccettatura ed insegna a non rimandare nulla.
Intervista a cura di Ilari Piccini